GLI ARTISTI ITALIANI (DEI VIDEOGIOCHI) HANNO ANCORA BISOGNO DI MECENATI
di Carlo Terzano
Nel precedente articolo a mia firma ci eravamo lasciati con la promessa di analizzare da vicino i dati del mercato globale dei videogiochi e, soprattutto, mettere sul vetrino del nostro microscopio i costi di sviluppo dei videogiochi “tripla A” in modo da comprendere perché il ritardo imprenditoriale italiano impedisca di fatto alle software house del Bel Paese di sviluppare i titoli di punta, quelli cioè che dominano le classifiche.
NON CHIAMATELI GIOCHINI
Secondo il report di Klecha & Co, investment bank europea specializzata nei settori tech, il mercato dei videogiochi a livello mondiale nel 2022 valeva 336 miliardi di dollari e sulla base di questa traiettoria dovrebbe arrivare a 522 miliardi entro il 2027, segnando un +9,2%. Di report simili, giusto sottolinearlo, se ne producono decine ogni anno e i numeri differiscono puntualmente. In questa sede citiamo proprio questo non perché lo si ritenga più affidabile degli altri, quanto per via del fatto che dedica ampio spazio al comparto startup. Secondo gli analisti che lo hanno redatto, solo nel 2022 le realtà più giovani e arrembanti hanno raccolto oltre 13 miliardi di dollari da fondi di venture capital.
AAA INVESTITORI CERCASI
Per avere un metro di paragone, in Italia nel 2022, uno degli anni migliori per le startup “tricolore”, l’ammontare complessivo investito da operatori domestici ed esteri si è attestato a 2,2 miliardi di euro in 370 operazioni (nel 2021 era pari a 1,9 miliardi con 317 round, aumentati del 17%). E parliamo di soldi confluiti in startup di ogni genere: dall’healthcare & lifesciences, al food, passando per la space economy, il fintech, l’insurtech con la parte del leone rappresentata da quelle ICT (Information and Communication Technologies). Cosa vuol dire questo? Che le startup videoludiche sono rimaste sostanzialmente a bocca asciutta.
Abbiamo già detto che il comparto italiano sta facendo piccoli passi avanti, che le startup iniziano a diminuire e che oggi quattro imprese su dieci rientrano nella definizione di PMI: era il 30% nel 2021 e appena il 17% nel 2018. Secondo la fotografia scattata da IIDEA - l’Associazione di riferimento che rappresenta l’industria in Italia - per l’anno 2022, sono aumentate pure le imprese con un numero di addetti tra i 10 e i 20, passate dal 15% del 2021 al 20% attuale. Un richiamo doveroso ai dati visti nel precedente articolo perché adesso è venuto il momento di scendere nel dettaglio e capire quali siano le forme di sostentamento della nostra industria.
Solo il 19% delle realtà videoludica si sostenta col private equity, percentuale di fatto tallonata da quelle che ricorrono alle piattaforme di fund raising (13%) mentre il venture capital è ancora più giù, inchiodato al 7%. Paradossalmente, è dunque più facile andare in banca, spiegare il gioco a cui si sta lavorando a un impiegato sessantenne che puntualmente aggrotterà le sopracciglia e ottenere un prestito: le realtà che ricorrono al credito bancario sono infatti il 10%. Insomma, abbiamo un enorme bisogno di investitori privati, connazionali ed esteri o il mercato difficilmente potrà decollare.
Ciò detto, resta da capire con quali soldi sviluppano i propri sogni le software house italiane. L’86% di coloro che ha risposto al sondaggio di IIDEA ha ammesso di aver fatto ricorso a ciò che aveva in tasca, mentre la seconda scelta (30%) è rivolgersi a un publisher. Ora, richiamiamo ancora altri dati visti la volta scorsa relativi al fatturato generato dalle imprese di produzione: nel 2022 si aggirava tra i 130 e i 150 milioni di euro. Tenuto a mente quanto detto sinora, si capisce che la combinazione di questi due fattori - impossibilità di trovare finanziatori e scarsi importi - rendano di fatto impossibile alle software house italiane lo sviluppo di un prodotto che possa competere coi grandi. Perché? Per il semplice fatto che sviluppare un titolo “tripla A” costi quanto fare un kolossal cinematografico.
QUANTO COSTA SVILUPPARE UN VIDEOGAME “TRIPLA A”?
Starfield di Bethesda Game Studios
Precisiamo subito che non è facile rispondere visto che né le software house né i produttori amano rivelare i costi dietro allo sviluppo di un titolo. Ci si muove, insomma, nel campo delle supposizioni. Ma quanto può essere costato fare un videogioco come Starfield, ultima fatica di Bethesda nonché prodotto di punta di Microsoft per la sua line up di fine estate-inizio autunno? Secondo quanto ha riportato sul proprio profilo LinkedIn un noto insider dell’industria dei videogiochi, ex-Accenture Gaming Lead, David Reitman, il gioco di ruolo spaziale avrebbe richiesto un budget di 200 milioni di dollari e un team di 500 persone. Purtroppo, non sono indicazioni molto precise, tanto più considerato l’ampio periodo temporale preso in considerazione per lo sviluppo: Todd Howard di Bethesda, parlando ai microfoni di VentureBeat, qualche tempo fa disse che iniziò a pensare al concept alla base di Starfield più o meno nel 2008 mentre lo sviluppo vero e proprio del gioco sarebbe iniziato dopo il debutto di Fallout 4, quindi verso la fine del 2015. Reitman non ci dice se i 200 milioni di dollari riguardino solo lo sviluppo o anche attività di marketing e, aspetto più importante, se quel mezzo migliaio di persone coinvolte nel processo creativo abbia lavorato al progetto dall’inizio alla fine, costituisca una media oppure il picco maggiore.
Qualche informazione in più, soprattutto a livello economico, ci può comunque arrivare comparando il costo presunto di Starfield ad altri tripla A di eguale caratura. Immettere sul mercato Cyberpunk 2077 ha richiesto l’esborso di 316 milioni, di cui 173,8 milioni per la realizzazione e il resto per attività di marketing. Scartabellando i documenti del fascicolo FTC contro Microsoft sull’acquisizione di Activision Blizzard è venuto fuori che The Last of Us Parte 2 è costato 220 milioni di dollari mentre Horizon Forbidden West, la prima killer application di PlayStation 5, 212 milioni di dollari. Anche il solo sviluppo di Red Dead Redemption 2 sarebbe costato cifre simili.
Horizon Forbidden West
Cosa vogliamo dire con questo? Che, mentre l’ultimo rapporto dell’Associazione italiana di riferimento stima che il fatturato complessivo degli operatori italiani sia compreso tra i 130 e i 150 milioni di euro, sviluppare un videogioco tripla A costa molto di più. È questa l’amara realtà restituita dai numeri. Il nanismo imprenditoriale italiano rischia di riverberarsi nell’assenza di titoli tripla A. Urgono sussidi, come abbiamo visto nel precedente articolo, perché le aziende estere sono foraggiate dai governi e se l’Italia non farà altrettanto le nostre realtà si ritroveranno a gareggiare in situazione di concorrenza sleale, ma soprattutto occorre trovare linee di credito e investitori pronti a scommettere sul talento e sulla creatività degli artisti italiani. Il nostro Paese ha dato moltissimo all’arte in ogni epoca, ma l’estro creativo da solo avrebbe fatto poco: fondamentale è stata l’opera dei mecenati.
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Carlo Terzano è caporedattore di StartupItalia. Ligure, laureato in legge, formatosi professionalmente al Master post-laurea della Scuola di giornalismo dell’Università milanese IULM è giornalista politico ed economico, ha collaborato e collabora anche con Radio 24, R101, Formiche e Corriere Innovazione e Lettera43.it.
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