Di inclusione e inclusività nel medium videoludico nell’era contemporanea
di Fabrizia Malgieri
C’è una tendenza importante, che ha investito i videogiochi negli ultimi anni, che li ha resi prodotti culturali sempre più votati all’inclusività. E per inclusività non intendiamo esclusivamente quella possibilità di sentirsi rappresentati all’interno del medium – una questione che, soprattutto negli ultimi anni, ha dato vita e voce a molte minoranze un tempo escluse in termini di rappresentazione – ma anche quell’opportunità che oggi tutti i videogiocatori hanno di divertirsi con il loro mezzo preferito. Nonostante sia spesso oggetto di gatekeeping – per cui si intende quella pratica attraverso cui si limita l’accesso a informazioni o contenuti custoditi (gelosamente) da un gruppo ristretto di persone – il videogioco in sé (e non da intendere come prodotto immerso in un preciso contesto socio-culturale e politico, che chiaramente ne modifica gli intenti) è sempre stato un oggetto fortemente democratico. Le sue regole sono uguali per tutti, non c’è una volontà a priori di escludere un determinato gruppo di persone dalla sua fruizione. Si pensi al videogioco delle origini: con le sue meccaniche lineari, ma appaganti, avvincente, ma senza risultare eccessivamente frustrante, era un mezzo che aveva tutte le potenzialità per rivolgersi a chiunque.
Tuttavia, è stato proprio quando il videogioco ha iniziato a penetrare sempre più negli ambienti domestici grazie alle prime console e ai primi personal computer – diventando, di fatto, un prodotto sempre più pensato al consumo di massa – che, paradossalmente, è diventato un medium sempre meno inclusivo. E, mi preme ricordarlo, non per “colpa” del videogioco in quanto tale, ma a causa delle diverse variabili che hanno agito sulla sua essenza, a partire dalle aziende di sviluppo e, in parte, dai giocatori stessi. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta, il mercato ha sentito sempre più l’esigenza di rivolgersi ad un determinato gruppo di persone (uomini bianchi e cisgender), considerati gli unici interessati ad acquistare il prodotto videoludico, escludendo di fatto molte categorie di potenziali utenti. Le donne, ad esempio, sono state per molto tempo escluse dai videogiochi sia in quanto giocatrici sia in termini di rappresentazione: gli spot pubblicitari e le operazioni di marketing, così come i prodotti in sé, erano pensati esclusivamente ad appannaggio di un pubblico maschile, dove le (poche) figure femminili presenti nei videogiochi erano damigelle in pericolo o personaggi iper-sessualizzati.
L’interesse nei confronti delle videogiocatrici, in quanto audience possibile per il medium, da parte delle aziende di sviluppo è sopraggiunto solo a metà degli anni Novanta, quando arrivano Lara Croft (la protagonista della serie Tomb Raider e tra le prime protagoniste femminili nella storia dei videogiochi) e i primi “pink games” – per cui si intendono quei videogiochi pensati esclusivamente per un pubblico femminile, che ruotano attorno a gusti o preferenze associati in modo stereotipico alle donne (trucco, pettegolezzi, relazioni amorose, etc.). Pur essendo sempre state parte del pubblico dei videogiocatori, le giocatrici iniziano a diventare appetibili in quanto pubblico solo più avanti, quando anche il mercato comincia a intuire la possibilità di esplorare nuove strade ed espandere il mondo dei videogiochi in tante direzioni differenti rispetto a quelle percorse fino a quel momento. Lo stesso discorso è valso per molte minoranze etniche e/o di genere, in quanto nel videogioco – soprattutto quello a cavallo dalla seconda metà degli anni Ottanta fino al Duemila – hanno prevalso quasi esclusivamente personaggi maschili, bianchi, eterosessuali e macho. Nelle poche rappresentazioni minoritarie che il videogioco ha offerto nel tempo, soprattutto nei suoi primi venti o trent’anni, il tipo di narrazioni o di rappresentazioni in termini di personaggi offerte in tal senso sono sempre state molto stereotipate o, nei casi peggiori, denigratorie e/o offensive. Spesso ridotti a macchiette, anche queste categorie di utenti hanno faticato a lungo affinché potessero sentirsi riconosciute o rappresentate in modo autentico all’interno del medium.
Lara Croft durante un combattimento nella versione rimasterizzata di Tomb Raider, in arrivo a febbraio
Per tutti i casi riportati qui, il processo di cambiamento non è stato semplice né, soprattutto, indolore: una fetta di minoranza (ma rumorosa) di videogiocatori ha sempre cercato di ostacolare una maggiore inclusività del medium videoludico, in quanto pubblici diversi da quelli che si (auto)definiscono hardcore gamer non sono considerati spesso degni o capaci di poter fruire del mezzo – da qui, il fenomeno sopracitato del gatekeeping. A causa di un modus operandi reiterato da parte del mercato per oltre due decenni, è stato complesso riuscire a inculcare nel gamer medio un’idea di videogioco inteso come prodotto inclusivo o capace di dialogare con pubblici molteplici. Ancora oggi, nonostante sia l’industria sia il mercato stiano lavorando affinché il mezzo abbracci un modello culturale sempre più accogliente e paritario – offrendo rappresentazioni più variegate e opportunità per dar voce a tutti – persistono ancora alcune frange di utenti incapaci di accettare il cambiamento attualmente in atto. Anzi, sempre più spesso queste categorie danno vita a furiose polemiche sui social, che talvolta sfociano persino in fenomeni di violenza verbale anche e soprattutto nei confronti degli stessi sviluppatori – rei, a loro detta, di seguire tendenze politically correct e/o di snaturare il videogioco della sua essenza per inseguire e cavalcare ideologie contemporanee che, chiaramente, non condividono.
Eppure i numeri parlano chiaro e offrono un quadro piuttosto lucido della situazione: secondo le ultime ricerche condotte a livello mondiale (a partire da quella di Statista, pubblicata nell’agosto 2023), il pubblico delle videogiocatrici, ad esempio, costituisce il 45% (1.39 miliardi) sul totale degli utenti – dati confermati anche dall’ultimo rapporto annuale sui videogiochi in Italia fornito dall’associazione di categoria IIDEA relativo al 2022, secondo cui il 42% dei videogiocatori del nostro Paese è donna. In altre parole, il presunto primato che alcune fasce di giocatori sostengono di avere nei confronti del medium viene smentito dagli stessi dati, che offrono uno scenario di gran lunga differente da quello ipotizzato – dove, in realtà, vige una quasi sostanziale parità in termini di fruizione. Tuttavia, affinché tale processo verso l’inclusività potesse ritenersi soddisfacente sono state attuate trasformazioni importanti anche all’interno dello stesso settore videoludico, e questo non solo in termini di rappresentazioni: anche la rappresentanza di genere e/o di etnie differenti di chi opera all’interno dell’industria è aumentata in modo significativo, permettendo allo stesso videogioco di risultare più autentico e coerente in ottica di inclusività. Questo anche con l’idea di evitare alcuni errori grossolani commessi in passato, che hanno dato vita a diverse mal interpretazioni di specifici avvenimenti o rappresentazioni all’interno del videogioco.
’Xbox Adaptive Controller permette a tutti di giocare con i videogiochi
Un altro aspetto di cui non si parla abbastanza, ma che è altrettanto importante e necessario in ottica di inclusività, è il modo in cui oggi le aziende di sviluppo si approcciano al concetto di disabilità. Esiste una fascia consistente di videogiocatori affetti da disabilità fisiche a cui per tanto tempo è stata negata l’opportunità di godersi il medium nel modo giusto. Seppur questi utenti abbiano comunque trovato nel tempo delle alternative (proprie) per videogiocare, nonostante le loro difficoltà fisiche, il mercato si è spesso dimenticato di questa categoria, lasciandoli di fatto esclusi. Tuttavia, le ragioni dietro la loro esclusione affondano principalmente nei limiti dettati dalle strumentazioni in dotazione ai videogiocatori (come i controller o le combinazioni mouse-tastiera) o da alcune limitazioni di tipo tecnico, che ne impedivano un uso appropriato. L’attenzione verso questa categoria di utenti è partita in sordina, in realtà, e in tempi anche piuttosto recenti: gli studi di sviluppo hanno iniziato a realizzare impostazioni grafiche e/o audio che permettessero di giocare anche ad utenti ipovedenti o non udenti, ad esempio. Solo a partire dai primi anni Venti del terzo Millennio, il settore ha iniziato a lavorare in modo concreto su accessibilità e inclusività nel gaming a 360°, proponendo controller pensati appositamente per persone affette da disabilità senza più compromessi. Con imperdonabile ritardo, certo, ma con risultati anche piuttosto soddisfacenti. Lo stesso vale anche per ciò che riguarda l’attenzione a temi come la salute mentale, che solo da pochissimi anni sono diventati parte del discorso mediale affrontato dal videogioco stesso – con opere ad hoc che riflettono e approfondiscono questi aspetti con grande attenzione e accuratezza.
Nonostante gli importanti passi in avanti fatti rispetto agli albori, risulta comunque difficile riuscire a parlare di inclusività al 100% per ciò che riguarda il videogioco. Lo abbiamo detto, il videogioco per sua natura è un prodotto molto democratico, le cui regole sono facilmente assimilabili e comprensibili da tutti – ma è il modo in cui il medium videoludico è stato interpretato nei suoi 50 anni di storia ad aver ostacolato una maggiore inclusione per tutti fino ai giorni nostri. Oggi si sta lavorando su diversi fronti (contenuto, sviluppo, accessibilità, etc.) e a velocità massime, affinché il videogioco possa essere definito un prodotto di e per tutti nel più breve tempo possibile, e gli sforzi compiuti finora restano comunque encomiabili. La speranza è che i passi compiuti finora siano solo le basi (solide) su cui il videogioco del futuro appoggerà, per rendere questo medium davvero per tutti e di tutti – nessuno escluso.
Classe 1985, Fabrizia Malgieri si è laureata in Cinema, Televisione e New Media per poi conseguire un dottorato di ricerca presso l’Università IULM di Milano con un progetto dedicato ai game studies. Dopo diverse esperienze nel settore televisivo e cinematografico, nel 2013 approda a GameReactor Italia - network presente in 12 Paesi e dedicato ai videogiochi - che ha diretto per 9 anni, e in parallelo dal 2018 collabora con la sezione Tecnologia (ora LogIn) de Il Corriere della Sera, occupandosi esclusivamente di gaming. Attualmente è assegnista di ricerca alla IULM con un progetto sulla rappresentanza e rappresentazione femminile nei videogiochi e nelle serie TV di genere. Appassionata videogiocatrice seriale, divoratrice di cinema e serie TV, geek.